Arnaldo Pomodoro ci lascia: addio al gigante della scultura contemporanea!

Di : Teodoro Montani

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Arnaldo Pomodoro è venuto a mancare domenica 22 giugno, nella sua residenza milanese, alla soglia dei suoi 99 anni. Nato il 23 giugno 1926 a Montebello di Romagna, si è affermato come uno degli artisti più rilevanti del ventesimo secolo, noto globalmente per le sue emblematiche sfere in bronzo.

In sua memoria, oggi Panorama.it ristampa l’intervista di Mauro Querci “I miei 96 anni spaziali”, che il Maestro concesse in occasione del suo novantaseiesimo compleanno: un colloquio intenso, chiaro e profondo che tocca temi come l’arte, la memoria e il tempo.


Lo scultore che ha impresso «segni» inconfondibili su scala mondiale parla a Panorama del suo esplorare sfere, labirinti e videogiochi. Parla dell’amata Milano e di una curiosità che lo anima, «nonostante questa realtà ci confonda tutti». E rivela un interesse che supera i confini del nostro pianeta…

«La Terra vista dallo spazio, con i suoi oceani, le distese di sabbia, le catene montuose. Quanta invidia provo quando vedo Samantha Cristoforetti! Se la incontrassi, le chiederei immediatamente cosa si prova a fluttuare nel vuoto…». A 96 anni, Arnaldo Pomodoro conserva l’entusiasmo genuino di un bambino quando parla degli astronauti. Lui, uno degli artisti italiani contemporanei più esposti in spazi pubblici nel mondo, con le sue sculture in metallo o fibra di vetro sparse da Hawaii a San Paolo, da Manhattan all’Australia. In luoghi emblematici come davanti alla sede dell’ONU o nel cortile del Quirinale, dove, durante il recente giuramento del governo, è stato inquadrato il suo Disco in forma di rosa del deserto. E così, di fronte a queste forme misteriose – sfere entro sfere, lance di luce, “aste cielari”, labirinti in bassorilievo – ci si interroga, avvertendo la severità e la definitività, ma senza paura: piuttosto, attratti come da una preghiera scolpita nel bronzo.

Pomodoro accoglie Panorama nella sua Casa della Scultura, vicino ai Navigli milanesi («Qui riordino il mio archivio e talvolta lavoro anche a piccole opere con i miei assistenti. È difficile per uno scultore fare tutto da solo…» afferma). Indossa un abito blu, ha la schiena dritta, cammina con lieve incertezza ma con occhi vivaci. Indica una parete, dove è appesa la sua opera “spaziale” intitolata L’inizio del tempo. Su una lastra di metallo nero spicca una sfera scura, la Terra, che sembra seguire una traiettoria dorata. È il cosmo che ritorna, sempre affascinante. Anche l’occasione dell’incontro, il videogame interattivo per le scuole Missione Pietrarubbia ispirato all’opera dell’artista, si svolge in una galassia lontana, con i ragazzi che devono orientarsi usando mappe di grande formato.

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Nei suoi labirinti formati da tagli e corrosioni, alcuni vedono un linguaggio. Cosa rappresentano per lei, Maestro?

Il labirinto mi ha sempre affascinato come luogo di passaggio, di incontro, di comunicazione. Una metafora della vita, un viaggio oscuro tra slanci e impasse, arresti e riprese. Il labirinto deve essere percorso, ci si deve perdere per poi ritrovarsi. E poi perdersi di nuovo.

Il processo di realizzazione delle sue sculture è lungo. Inizia con l’argilla, che lei modella…

Il contatto con la materia rappresenta una relazione con il mondo e dunque la possibilità di una trasformazione. È un aspetto fondamentale del mio lavoro. Scavo nell’argilla, usando le mani e vari strumenti, per creare la forma che desidero “in negativo”: quell’impronta viene trasferita prima nel gesso, poi nello stampo in gomma siliconica dove si versa la cera, fino a raggiungere la fusione del metallo. In ogni caso, è la terra stessa a dar vita alla scultura.

In molte delle sue opere si osserva una superficie metallica liscia e brillante, interrotta da fratture, ferite o, se si preferisce, canyon… Può spiegarcelo?

Non mi interessa la forma piena. È un’illusione, quella. Voglio dimostrare che quel “pieno” contiene un vuoto, un mistero. Ma lasciatemi aggiungere qualcosa sulle mie sculture: quando dicono che ho usato chissà quali prodotti per rendere così lucide le grandi sfere… Ci vuole “olio di gomito”, ecco cosa ci vuole!

Oltre alle opere di grandi dimensioni, con i gioielli lei ha praticato una “scultura in miniatura”, come diceva Gillo Dorfles. Perché questa passione?

Quando lavoravo ancora a Pesaro, come geometra presso il Genio Civile, avevo scoperto come si potevano incidere e scavare gli ossi di seppia. Una vera “tessitura”. Una base su cui modellare questi gioielli. Mi è sempre piaciuto realizzarli, anche se ammetto che alcuni erano quasi “importabili”. Ma Fernanda Pivano riusciva a indossarli comunque con eleganza. Per Ornella Vanoni, per esempio, ho creato una sorta di “guanto-bracciale” che esibiva con orgoglio nei suoi concerti…

Lei, Maestro, quali maestri ha avuto?

Lucio Fontana. L’ho incontrato qui a Milano, nel 1954. Per me è stato sia un’ispirazione che una figura paterna. Qualsiasi cosa facesse, anche un buco in una tela, esprimeva un’arte liberatoria. Lo ammiro profondamente.

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Perché le persone restano affascinate dalle sue sculture?

Forse perché cercano di trasmettere la carica emotiva dell’artista di fronte alla realtà e alle sue contraddizioni. Nelle sculture cerco di esprimere una forza d’astrazione che consente una pluralità di letture, di interpretazioni simboliche.

Ha ricordato la Milano degli anni Cinquanta. Frequentava quell’ambiente artistico?

Sono nato a Orciano, nelle Marche. È un luogo incantevole, ma dovevo lasciarlo. Bisogna abbandonare ciò che si conosce per aprirsi ad altro… E per me quell'”altro” è stata Milano, il luogo dove bisognava essere. In seguito sono andato in America, a New York, in California, certo. Ma era da Milano che passava tutto. Poi sì, gli artisti si ritrovavano a Brera, nei caffè come il Jamaica. Io personalmente non molto, in verità. Lì vedevo soprattutto ubriaconi! (Ride). Preferivo lavorare in studio. C’è stata anche un po’ di mitizzazione su quell’epoca…

Segue l’arte di oggi?

Vedo spesso spettacolarizzazione o operazioni di puro marketing. Tuttavia, ci sono anche giovani artisti di talento che cercano nuovi linguaggi espressivi: meritano sostegno. Per questo motivo ho voluto una Fondazione con spazi per le esposizioni e un premio che valorizzi chi fa scultura.

E passando dall’arte alla realtà in cui viviamo, come la vive?

Sono affascinato ma altrettanto disorientato. Le distanze si sono annullate, la comunicazione è diventata immediata e globale, allo stesso tempo sono venuti meno i luoghi di incontro e di scambio, si sono confusi i diversi periodi della vita e della storia. Siamo fragili, mi sembra che soprattutto i giovani abbiano perso l’orizzonte. Credo che dovremmo ritrovare la consapevolezza del passato, della sua ricchezza, della sua complessità per costruirci un futuro. Anche io mi sento confuso, ma continuo a essere curioso. Dello spazio, per esempio… Perciò mi appassionano le imprese della Cristoforetti!

Che cos’è per lei la felicità?

Nella vita è impossibile separare la gioia e il dolore. Ho dovuto affrontare difficoltà e dolori che mi hanno segnato e rafforzato il carattere, ma ho anche vissuto momenti di intensa gioia. La felicità consiste nel trovare un punto di equilibrio tra questi due opposti, forse.

C’è un difetto che si riconosce?

L’egocentrismo, tipico di chi fa il mio mestiere. In passato mi capitava di cambiare spesso umore. Alla mia età però sono più tranquillo, più paziente. Anche con gli imbecilli!

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Il “dopo vita” la spaventa?

La morte mi ha sempre angosciato e spesso provo smarrimento, mi sento un sopravvissuto pensando a tutte le persone care che ho perduto, agli amici che non ci sono più. Però mi rassereno quando riesco a srotolare nella memoria le esperienze, belle e brutte, o le immagini delle mie opere all’aperto, nel verde, dove la gente vive e si muove, dove diventano parte del territorio. Un tutt’uno con il paesaggio.

Ha fiducia nel futuro?

Posso dire di non aver perduto la passione. E ho il desiderio di sapere, di conoscere. Mi piace dialogare con i giovani perché, oltre alla trasmissione di esperienze, credo sia importante creare un senso di comunità, un progetto collettivo, vitale. Questo ci può aiutare nel nostro disorientamento.

C’è un’opera a cui è più affezionato?

Sono tutti “figli” miei, come faccio a preferire questa o quella… Tuttavia, ho un rimpianto: non aver visto realizzato il cimitero di Urbino, nonostante avessi vinto il concorso. Sarebbe stata un’opera che integra architettura, natura ed etica: una strada scavata dentro una collina, nel verde, con pareti alte in cui collocare le tombe. Per collegare idealmente i culti funerari antichi e l’uguaglianza di tutti di fronte alla morte della fede cristiana.

A che cosa serve l’arte, alla fine?

Picasso sosteneva che «è la menzogna che ci fa raggiungere la verità o, almeno, la verità che ci è dato comprendere». Uno dei suoi paradossi è che sfugge a ogni logica strumentale. Quello che direi io è che l’arte serve a tutto… e a niente.

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