A Tahiti si racconta che l’arte di tatuare abbia un’origine divina: durante il Periodo Oscuro, è stata creata da due figli del dio Ta’aroa, Mata Mata Arahu e Tu Ra’i Po, che in seguito diventò il protettore delle arti. Le due divinità facevano parte di un gruppo di artigiani che comprendeva Taere, di grande abilità, Hina Ere Ere Manua, la luce sottomessa dal carattere impetuoso, Ti’i e Hina, la figlia più anziana del primo uomo e della prima donna.
Durante la maturità Hina Ere Ere Manua cambiò nome in Pahio e fu rinchiusa dalla mamma per preservare la sua verginità. I due fratelli Mata Mata Arahu e Tu Ra’i Po decisero di sedurla tatuandosi con un motivo chiamato Tao, riuscendo a incuriosirla a tal punto che Hina riuscì a fuggire, presa dalla irrefrenabile voglia di farsi tatuare.
Ancora oggi gli artisti polinesiani prima di iniziare la cerimonia dei tatuaggi (la parola tattoo, da cui tatuaggio, deriva dal termine tahitiano tatau, che rappresenta il gesto di picchiettare sulla pelle incidendo dei segni indelebili) invocano le due divinità affinché tutto vada bene e, in particolare, i disegni riescano bene.
Nonostante quella del tatuaggio sia una tradizione ampiamente diffusa in tutte le isole di Tahiti, l’arcipelago che ha maggiormente fatto propria l’arte di decorare l’intero corpo con disegni geometrici, anche molto ricchi e complessi, è quello delle isole Marchesi, l’unico a prevedere anche la decorazione del viso.
I significati
Prima dell’arrivo degli europei, il tatuaggio poteva indicare la tribù o la famiglia di appartenenza, il livello della persona all’interno della scala sociale o la provenienza geografica. O ancora, un momento importante della vita: il passaggio dall’infanzia alla pubertà, il matrimonio, la nascita di un figlio, una vittoria in guerra. Insomma, era talmente diffuso e legato alla tradizione locale, da essere considerato quasi inaccettabile per un tahitiano non averne uno.
Le tecniche
“Decorano i loro corpi con piccole incisioni, o pungendo la pelle con piccoli strumenti fatti di ossa e denti di animale. Le incisioni vengono colmate con una mistura blu scura o nera ottenuta dal carbone di una pianta oleosa. Questa operazione, chiamata dagli indigeni tattaw, lascia un segno indelebile sulla pelle. Generalmente viene applicata ai bambini dai dieci anni in su in diverse parti del corpo”. Così scriveva il capitano James Cook nel suo diario The Voyage in H.M. Bark Endeaver, di ritorno dal primo dei tre viaggi, compiuto nel 1771, che gli aveva permesso di scoprire l’isola di Tahiti.
Gli antichi artisti polinesiani usavano una sorta di bisturi artigianale per incidere la pelle, chiamata tatatau: un manico di legno con una punta che poteva essere il becco o l’artiglio di un uccello oppure il dente di un pescecane. Spesso, per costruire più in fretta una parte del disegno, il bisturi aveva da tre a venti punte separate.
Le tinte erano scure, di colore nero tendente al verde o al marrone, e si ottenevano bruciando i frutti dell’albero ti’a’iri. L’inchiostro veniva poi diluito in olio o acqua per ottenere un liquido omogeneo. Per garantirne la tenuta, la mistura veniva completata con zucchero di canna o succo di noce di cocco.
All’inizio il Tahu’a tatau (artista) disegnava la figura con un bastoncino carbonizzato; successivamente, con il bisturi, battuto con un pezzo di legno, provocava una serie di tagli sulla pelle che venivano subito coperti con una striscia di inchiostro. Alla fine dell’incisione, la pelle veniva trattata con succo di banana o di Ahi Tutu (l’albero del sandalo) e gentilmente accarezzata con foglie e spugne per lenire l’irritazione. La cerimonia durava diverse ore, ma per i disegni più complessi ci volevano anche alcuni mesi, e i Tahu’a tatau tatuavano più persone contemporaneamente.