Ci sono artisti che risiedono ai margini, mentre altri li attraversano. Dabalkim fa entrambe le cose. Le sue creazioni non si limitano a essere mere esibizioni o oggetti d’arte: si trasformano in cerimonie collettive, in momenti di passaggio, in aperture verso dimensioni alternative che diventano subito tangibili. Dalle vesti imperiali dell’era Joseon in Corea al mito di Ermafrodito, dal suono del geomungo che si fonde con loop elettronici ai danzatori che mutano lo spazio in un santuario laico, ogni dettaglio nei suoi lavori è pensato per forgiare un vocabolario inedito, libero da confini geografici o identitari.
Non sorprende quindi che Milano, crocevia di scambi e contrasti, di radici e avanguardie, si sia rivelata il luogo perfetto per questa sintesi. In questa città, al centro dell’Europa, l’arte coreana contemporanea scopre una realtà che trascende il semplice commercio per abbracciare il dialogo.
«Non mi propone di distruggere la tradizione – afferma – ma di rivitalizzarla nel contesto odierno. Quando i gesti, i tessuti, i miti coreani si trasformano sul palco, cessano di appartenere a un luogo o a un’epoca definita e iniziano a comunicare in un linguaggio universale».
Identità e memoria
Per Dabalkim, il corpo è contemporaneamente confine e campo di battaglia. L’androginia, l’ibridità, l’ambiguità diventano espressioni di potere, capaci di modificare la percezione e innescare interrogativi. «Il mito dell’Ermafrodito è stato un trampolino di lancio. Non mi limito all’androgino, ma esploro la possibilità di un corpo che sfugge ai confini binari, diventando espressione di molteplicità».
Insiste molto sulla memoria durante la nostra conversazione: «Ogni movimento che porto in scena affonda le radici nella mia esperienza personale e collettiva. Non può esistere identità senza memoria, né memoria senza una sua evoluzione. Da questa tensione emerge la mia arte».
L’arte coreana in Italia
Interrogato sullo stato dell’arte coreana in Italia, Dabalkim non ha dubbi: «C’è ancora molto cammino da percorrere. L’Italia conosce la Corea principalmente attraverso la K-wave, il K-pop e i drama televisivi. Tuttavia, la voce dell’arte contemporanea coreana è potente e merita maggiore spazio nelle istituzioni e nei musei italiani. Non si tratta di importare esotismo, bensì di instaurare un autentico dialogo».
Ribadisce che tale dialogo non deve essere superficiale: «La Corea ha vissuto trasformazioni politiche e culturali significative. Portare questa espressione in Europa significa narrare resilienza, conflitti, identità in trasformazione. Vorrei che anche l’Italia prestasse maggiore attenzione a queste storie, poiché ci riguardano tutti».
Soft power e fiere
Il tema delle fiere è inevitabile. Frieze, la Biennale, piattaforme globali dove le opere diventano strumenti di diplomazia culturale. Dabalkim osserva con chiarezza: «Le fiere internazionali sono un palcoscenico di soft power. I Paesi utilizzano l’arte per narrare se stessi, per dimostrare forza e visione. Tuttavia, credo che l’arte debba trascendere il branding nazionale: deve essere cerimonia, esperienza. È l’unico modo per evitarne la riduzione a mero capitale simbolico».
Aggiunge: «Partecipare a questi eventi implica confrontarsi con logiche di mercato intense. Ma porto sempre con me l’idea di rito: quando il pubblico interagisce con un’opera che non può possedere ma solo vivere, qualcosa si spezza nelle regole».
K-Food, K-Drink e K-Beauty a Milano
A Milano, il Korea Night 2025 organizzato dal Consolato Generale della Repubblica di Corea ha esplorato un’altra faccia del soft power: il K-Food, il K-Drink e il K-Beauty. Dai piatti iconici come Kimchi, Bibimbap e Bulgogi ai liquori tradizionali come il Makgeolli e il Soju, fino alla cosmetica, rappresentata dal brand Elroel, che ha introdotto la sua filosofia di skincare basata su strati e ingredienti botanici e fermentati, la serata ha narrato un Paese che fonde tradizione e innovazione, gusto e bellezza. Se Dabalkim trasforma lo spazio in un santuario laico, i piatti, i profumi e i rituali della bellezza coreana hanno completato l’esperienza, trasformando Milano in un palcoscenico dove arte, gusto e cura personale diventano cerimonia collettiva, una tradizione che respira nel futuro.
Le difficoltà degli artisti emergenti
Non manca un riferimento alle sfide strutturali: «Gli artisti emergenti, sia in Corea che in Italia, affrontano la stessa instabilità. Ci sono talenti straordinari che non trovano spazio perché il sistema favorisce chi garantisce un immediato ritorno economico. Per questo motivo ho fondato il Dreaming Club: per offrire un ambiente dove ciascuno possa esprimere il proprio linguaggio senza doversi adeguare a logiche esterne».
Il paesaggio del Dreaming Club
Il Dreaming Club non è semplicemente un collettivo, ma una visione. «Lo descriverei come un paesaggio – spiega – dove ogni artista contribuisce con un elemento: il suono, la danza, la visione. Quando questi si incontrano, nasce un rito. Non immagino un gruppo strutturato, ma un luogo immaginario che prende vita ogni volta che qualcuno decide di attraversarlo».
Qui la moda dialoga con il cinema, la musica con il corpo, la tradizione con il futuro. È un terreno instabile, ma proprio per questo fertile: da qui emergono opere che sfuggono a ogni categorizzazione.
La ritualità come esperienza
La parola che ritorna con maggior frequenza è rito. «L’arte non può limitarsi a essere decorativa – sostiene –. Deve innescare trasformazioni interiori, deve diventare un’esperienza condivisa. Questo è ciò che mi interessa: costruire un rito che, una volta vissuto, non può essere dimenticato».
Critica apertamente il mercato: «L’arte oggi rischia di diventare solo capitale simbolico per chi la acquista. Io credo invece che debba ritornare a essere un rito collettivo. È questo che permette di superare confini, nazioni, identità imposte».
Milano come soglia
Tutto questo si è concretizzato a Milano, in un evento organizzato dal Consolato coreano. Lì, tra costumi che parevano provenire da un regno perduto e sonorità che univano il geomungo all’elettronica, lo spazio si è trasformato in un tempio temporaneo. I danzatori si muovevano come entità eteree, incarnazioni della molteplicità del mito e della memoria.
«Ho percepito che l’Italia poteva identificarsi in questo – confida –. La ritualità coreana e quella italiana condividono la stessa profondità: entrambe sono radicate nella memoria collettiva. Ecco perché, quando la performance si realizza, non è più un evento coreano o italiano, ma universale».
Un rito irripetibile
Il pubblico è rimasto immobile, in silenzio, come incantato. Non solo uno spettacolo, ma un rito collettivo che ha trascenduto tempo e spazio. «Ogni segno che lascio non è mai un oggetto, ma un’esperienza. Questo è il mio modo di concepire l’arte». Quando le luci si sono spente, Milano si è trasformata in un crocevia: Oriente e Occidente si sono sognati reciprocamente. E chi era presente ha compreso di aver assistito a qualcosa che non si ripeterà, perché certi riti vivono una sola volta, e per questo restano eterni.
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Teodoro è un giornalista esperto in tendenze e innovazioni stilistiche. Il suo approccio diretto e semplice aiuta tutti a decifrare i codici dello stile moderno. Con curiosità ed esperienza, analizza le novità offrendo una visione chiara e accessibile a tutti i lettori.




