Milano. E’ la città più città d’Italia; ed è bella da vedere. Chi pensa il contrario non è mai sceso in Stazione Centrale, crede ai luoghi comuni e non ha mai letto Stendhal che la preferiva a Venezia tanto da volere nella tomba la scritta: “Henri Beyle, milanese”. Leggere le emozioni e i racconti dell’ufficiale francese è una consolazione per chi, come me, cerca di difendere una Milano fatta d’arte. Fatta d’arte soprattutto per merito di Gian Giacomo Poldi Pezzoli e Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi, dei coniugi Boschi di Stefano e degli industriali Necchi Campiglio che hanno lasciato in eredità un patrimonio culturale e artistico senza precedenti.
Dal 2 ottobre 2008 le loro quattro Case Museo sono riunite in un circuito aperto al pubblico (tempo di visita stimato: 2 giorni), un “Grand Tour” che provoca meraviglia, uno dei sensi più profondi dell’arte. A Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879), discendente dalla stirpe dei principi Trivulzio, va il merito di aver raccolto nell’ “appartamento” del palazzo di famiglia con parco all’inglese, in via Manzoni, un’incredibile collezione di armi antiche e opere d’arte, tra cui quelle del Rinascimento lombardo (Foppa, Bergognone, Luini), veneto (Bellini, Mantegna) e toscano (la Dama del Pollaiolo, un Piero della Francesca e due tavole di Botticelli). Scapolo e senza figli, Poldi Pezzoli lasciò scritto che, una volta passato a miglior vita, i suoi tesori dovevano essere “ad uso e beneficio pubblico”. E così avvenne: il museo aprì le porte nel 1881.
Anche il Bagatti Valsecchi è frutto della straordinaria vicenda collezionista dei fratelli Fausto e Giuseppe. Dagli anni ’80 dell’Ottocento i due baroni iniziarono a trasformare la casa tra via Gesù e via Santo Spirito in dimora ispirata al Cinquecento lombardo con dipinti di grandi maestri (Giovanni Bellini), maioliche, arredi quattrocenteschi, avori e armature. Il palazzo continuò a essere abitato fino al 1974 quando Pasino, figlio di Giuseppe, decise di costituire la Fondazione Bagatti Valsecchi e dal 1994 18 stanze sono aperte al pubblico.
Un anno prima di Pasino, Antonio Boschi e Marieda Di Stefano donarono la loro collezione d’arte contemporanea con la clausola che il Comune di Milano aprisse un museo nell’appartamento borghese di via Jan 15. Modestamente ricchi, i coniugi comprarono le prime opere (de Chirico, Sironi, Funi) vendendo l’automobile ma ben presto la loro collezione divenne così importante che, come Gian Giacomo Poldi Pezzoli, iniziarono ad aprire il salotto della loro casa a piccoli concerti e scambi intellettuali tenuti tra opere di Boccioni, Severini, Casorati, Carrà e Lucio Fontana.
Anche Villa Necchi Campiglio è sempre stata aperta agli amici – Castelbarco Cicogna, Crespi Fossati Bellani, Juan Carlos di Spagna, Simeone di Bulgaria con la moglie Margarita, Enrico d’Assia e Maria Gabriella di Savoia – ma per un torneo di carte e tennis o un bagno in piscina. Perché il complesso di via Mozart, progettato tra il 1932 e il 1935 da Piero Portaluppi per Angelo Campiglio, la moglia Gigina Necchi e la cognata Nedda, comprendeva la villa padronale, il giardino, gli edifici per la portineria, la serra e il garage, la piscina e il campo da tennis. Di questo privilegiato spaccato di vita parlano gli arredi, le collezioni d’arte (Alighiero ed Emilietta de’ Micheli e Claudia Gian Ferrari) e tutti gli strumenti tecnologici più avanzanti dell’epoca come il sistema di comunicazione interno via citofoni. Prima di morire (2001), Gigina decise di donare la casa al FAI per aprirla al godimento del pubblico. Oggi la Villa non è solo un’opera d’arte in sé; è anche il simbolo di una città che deve tornare ad essere ambiziosa.
Articolo pubblicato su Style Il Giornale