Pastiglie Leone è un nome inconfondibile: a tutti sarà capitato di assaggiare almeno una volta quelle pastiglie colorate, “dissetanti e digestive“, di cui si va ghiotti fin da bambini Ancora oggi le sue lattine sono iconiche e vintage. E, con i suoi 160 anni appena compiuti, l’azienda si annovera tra le più longeve nella storia dell’imprenditoria italiana: fondata nel 1857 a Torino da Luigi Leone, dal 1934 è di proprietà della famiglia Balla-Monero, che ha mantenuto tradizione, nome, slogan e grafica, fregiata niente meno che con il vessillo dei Savoia.
La storia di Pastiglie Leone è affascinante non solo perché lunga e peculiare, retaggio di un’epoca, la metà dell’Ottocento, in cui Torino poteva vantarsi di essere la capitale dei dolciumi, e presto d’Italia, con l’unificazione del 1861. Fino ad oggi, infatti, è stato un susseguirsi di novità e di eventi che hanno intrecciato indissolubilmente le vicende storiche con quelle aziendali, portando la Leone ad affermarsi come il simbolo di uno splendore passato che sopravvive nonostante le difficoltà del mercato contemporaneo.
Oggi Pastiglie Leone produce oltre 3 milioni di scatolette di pastiglie l’anno di 40 gusti diversi, oltre a caramelle e cioccolato di ogni tipo. Abbiamo chiesto qual è il segreto di tanto successo a Guido Monero, guida dell’azienda e figlio della combattiva Giselda Balla Monero, quella “leonessa” che seppe rendere Pastiglie Leone una realtà sempre più florida sulla scena torinese e nazionale. Eccellenza, nella scelta delle materie prime e nei metodi di produzione, rispetto della tradizione e sguardo rivolto al futuro, sono i valori fondanti di quella “Marca Leùn” che da sempre in Piemonte è sinonimo di qualità assoluta. Ma partiamo dal principio.
Signor Monero, come è iniziato tutto?
L’esperienza di Luigi Leone proviene da quella di suo padre e di suo nonno, che nel loro piccolo ristorante di Neide, vicino ad Alba, offrivano ai loro avventori, per la fine del pasto, un prodotto dissetante e digestivo, pestando lo zucchero bianco con una soluzione di gomma arabica e di gomma adragante, proprio come facevano i farmacisti alla fine del ‘700 per creare i loro medicamenti. I gusti disponibili allora erano la menta, la cannella e il garofano. Da lì Leone prese in mano l’attività e si spostò a Torino, in corso Vittorio Emanuele 78, angolo via Bellini, e da allora è stato tutto un divenire, ma la ricetta è rimasta la stessa e noi la usiamo ancora oggi.
Qual era la particolarità di Luigi Leone rispetto a tutti i concorrenti della scena dolciaria torinese?
La cosa curiosa di Luigi Leone è che, pur essendo nato in un paesino della Langa, aveva le più grandi aspirazioni. Puntava a diventare il fornitore della Real Casa, e, per ingraziarsi i Savoia, che dopo l’Unità d’Italia governavano anche sul Regno di Napoli, decise di chiamare le sue pastiglie “Principe di Napoli”, come il titolo del primogenito dei sovrani, e di aromatizzarle al gusto di fiordarancio, il profumo della pastiera napoletana. Si immagini che testa che aveva!
Come è arrivata l’azienda alla vostra famiglia?
Luigi Leone morì nel 1921, ma il figlio non voleva saperne di proseguire l’attività, così la cedette a una famiglia della zona di Alba, i Culasso, che però avevano a loro volta un figlio che aveva studiato per fare l’ingegnere e non si interessava di aziende. Nel 1934, mia mamma e mio zio, che si occupavano già del commercio all’ingrosso delle pastiglie Leone, la acquisirono.
Giselda Balla Monero, sua mamma, era una donna fuori dal comune: non per niente era soprannominata la Leonessa.
Mia mamma era una donna molto volitiva e la ragione nasce molto prima: non voglio essere noioso, ma questa gliela devo raccontare! Mia mamma ereditò lo spirito imprenditoriale da mia nonna, Caterina Calcia: anche lei a sua volta aveva avviato da sola un’azienda tessile quando, alla fine dell’800, non era per niente facile per una donna. Andò perfino alla fiera dell’est di Lipsia per comprare le macchine necessarie, tra le mille proteste del marito. Così mia mamma, impiegata in una grossa azienda dolciaria di Torino, decise di mettersi in proprio sulle orme della nonna, e insieme al fratello Celso aprì un’attività chiamata La Vittoria, in onore della vittoria della Prima Guerra Mondiale. Quando Pastiglie Leone venne messa in vendita, la acquisirono, trasferendo la sede in corso Regina Margherita, dove siamo rimasti fino a 11 anni fa.
Dopo la fine di quell’epoca d’oro, a Torino molte aziende hanno dovuto chiudere i battenti. Invece, Pastiglie Leone è forte e fedele alla tradizione, ma cos’è che la rende così speciale?
Qui ci occupiamo di tutto il ciclo completo: facciamo le pastiglie e tutti i tipi di caramelle, con e senza zucchero, i prodotti di confiserie, le gelatine di frutta, i fondant, le gocce, le goccioline al rosolio, le lacrime d’amore, le gommose fatte con addensanti naturali e non con gelatine alimentari, e il cioccolato partendo dalla tostatura delle fave di cacao. Siamo gli unici, ad esempio, a lavorare il cioccolato alla pietra a partire dalle fave, come si faceva nei primi dell’Ottocento a Torino, e non compriamo la massa di cacao industriale come fanno gli altri, perché quella viene lavorata all’origine e non si sa cosa ci finisce dentro. Ci vuole volontà e voglia. I nostri oli essenziali di arancio, limone e mandarino, per esempio, arrivano tutti dalla Sicilia: cerchiamo sempre di selezionare il top delle materie prime. Tanto per dire, nel cioccolato usiamo solo zucchero grezzo di canna che viene dalle isole della Réunion. Perché voglio proprio quello lì? Perché il cacao lì cresce sullo stesso terreno delle canne da zucchero e così si integrano alla perfezione.
Insomma, quando si tratta di ricercare la qualità non esistono mezze misure…
Anni fa mia moglie mi regalò un librone scritto in francese da un ticinese, che aveva lavorato come cioccolataio a Torino e a Parigi. Sfogliandolo, trovai scritta la ricetta del cioccolato, e le dosi sono le stesse che usiamo noi oggi, quindi non abbiamo inventato nulla. Non a caso, quando in Piemonte si dice che un prodotto è marca Leone si intende che è perfetto, ineccepibile: poi si può anche sbagliare, ma l’intenzione è quella.